L'opposizione alle riforme
Costituzionali, fin dall'origine sospette per lo scardinamento dell'art. 138 e per le procedure incostituzionali con
cui sono state avviate, sono una occasione per le opposizioni per trovare nuove
forme aggregative efficaci che sappiano, come afferma Medici, in questo
articolo da leggere, scoprire che è possibile solo "attraverso la condivisione, l’incontro, la relazione che è possibile
imbastire un nuovo tessuto politico. Creando cioè ambiti collettivi in cui
ognuno sia messo in condizione di contribuire e dunque di rendersi
protagonista".
La sinistra soffia nel vento
di Sandro Medici
Potrà sembrare eccessivo e perfino un po’ apocalittico, ma la sensazione è
che la sinistra sia ormai in via d’estinzione. O meglio, sembra non esserci più
un soggetto politico che aspiri e intenda svolgere una funzione alternativa
agli assetti dominanti. Quel che oggi viene definita «sinistra» è un
assemblaggio di forze politiche e sociali che costituisce una delle versioni,
sempre meno distinguibile, di quel format politico che l’economia di mercato
ritiene pur sempre necessario.
La sinistra non più motore di cambiamento strutturale ma variante
funzionale allo sviluppo del capitale finanziario: preferibilmente in alternanza
alla destra, ma, se del caso, come accade oggi, anche congiuntamente.
È stata una lunga marcia, quella che ha portato la sinistra italiana a
rinunciare a se stessa e ridursi a un surrogato sbiadito e inane. Si dirà che così
è per le tante ragioni storiche che ci hanno attraversato. Per le ripetute sconfitte
che abbiamo subìto, per i limiti, gli errori e anche per quel vortice di vanità
soggettive, inconfessabili invidie, ripicche, malintesi, croniche e grottesche
litigiosità che hanno consumato gruppi dirigenti e corpi militanti. Ed è
inutile girarci intorno tra reticenze e nostalgie, un’intera cultura politica
appare completamente azzerata.
Né potrà essere un congresso, singolo, multiplo o accoppiato che sia, a
porte aperte o finestre chiuse, se prima o dopo le primarie, a riaccendere
scintille o rigenerare coscienze. Né, d’altra parte, può apparire convincente
affidarsi ad attempate liturgie o pratiche obsolete, a rassicuranti
rispecchiamenti. La degenerazione oligarchica e faccendiera e il minoritarismo
compiaciuto e consolatorio, insieme alle loro innumerevoli sfumature, ci
restituiscono per intero l’entità della crisi della sinistra. Né un politicismo
estenuato, né un volontarismo velleitario.
Se questa crisi è davvero così profonda e disperante, sarebbe consigliabile
evitare di continuare a considerare rancore e risentimento tutto quel che prova
a muoversi fuori dal recinto della rassegnata accettazione degli attuali
assetti. Così come ci si dovrebbe astenere dal considerare ruffiani e traditori
tutti quelli che, più o meno invano, tentano di dare un senso al loro realismo
ripiegato. E non solo per rispetto reciproco o per quel minimo di eleganza che
è sempre bene concedersi. Ma per quella consapevolezza politica che dovrebbe
spingere tutti a misurare i propri limiti e a non attribuire ad altri le
proprie mancanze e frustrazioni. Non si tratta pertanto di rivolgere appelli
alla tolleranza o richiamarsi a un’improbabile fraternità o, men che meno,
invocare una stucchevole unità. Semmai, di rendersi conto di quanto scarsamente
credibili appaiano le nostre bandiere e noi stessi che non riusciamo a sventolarle,
di quanto inadeguate e caduche siano le ragioni di ciascuno, di fronte alla
profondità di una crisi che poco o nulla da quelle ragioni viene intaccata.
Mentre questa nostra crisi si consuma e ci consuma, trovano spazio ed
energia quei poderosi processi restaurativi che stanno definitivamente allineando
il nostro paese alle esigenze della governabilità panfinanziaria. Come del
resto veniva recentemente raccomandato dalla potente banca d’affari JpMorgan.
In uno spazientito rapporto si ricordava carinamente che per il potere
finanziario la democrazia, i diritti e le libertà sono variabili dipendenti:
non dunque principi universali e storicamente acquisiti, ma inconvenienti che
fanno attrito, se non proprio impedimento, ai processi accumulativi del
capitale speculativo.
E non sarà certo un caso che, in sintonia con tali indicazioni, si stiano
allestendo le prove generali per cambiare la Costituzione del ’48 e così
promuovere un assetto istituzionale presidenzialista, sebbene semi o post o
tardo (fate voi). Concentrare cioè il potere politico negli organi esecutivi,
indebolire la dialettica parlamentare, limitare le prerogative della
magistratura, comprimere il campo dei diritti sociali e sindacali,
neutralizzare il dissenso delle comunità locali, contrastare i processi di
democrazia diretta dei movimenti. È questo il passaggio storico che si è in
procinto di promuovere: e che tragicamente vede tra i più attivi sostenitori
nientemeno che gli epigoni dei partiti costituenti, attualmente accampati al
Quirinale e a Palazzo Chigi.
Se realizzato, si configurerebbe come un’eutanasia del sistema repubblicano
post-resistenziale, che è poi forse l’ultimo retaggio culturale unificante
della democrazia italiana. Modificherebbe cioè in senso autoritario l’assetto
fondativo del nostro paese. Insomma, un irrimediabile strappo politico-istituzionale,
con il conseguente restringimento delle garanzie democratiche e delle tutele
sociali.
Siamo insomma al tratto conclusivo della mutazione italiana, una parabola
restauratrice il cui percorso ha prima scompaginato, poi neutralizzato, infine
sussunto il pensiero e l’azione della sinistra storica. Se non interverranno
rotture clamorose, allo stato improbabili (anche se non impossibili), gli
assetti politici generali resteranno prigionieri della gabbia delle
compatibilità (e delle larghe intese). Lasciando senza riferimenti e senza
sbocchi il montante malessere sociale, quell’intenso disagio popolare che
oscilla tra collera e afflizione, sempre più smarrito e inerme. E che comunque
si manifesta come può: in larga prevalenza, con un progressivo abbandono,
oppure, più limitatamente, in un ostinato impegno di opposizione. Non riuscendo,
entrambe le scelte, ad aprire prospettive di cambiamento e neanche a incidere
con sufficiente efficacia.
Qual è allora l’algoritmo che può offrire a questa domanda politica una
possibile via d’uscita? La risposta è «nel vento», avrebbe detto tempo fa Bob
Dylan: e cioè in una maturazione di processi evidentemente ancora imperfetti e
incompiuti, in un’ulteriore crescita di consapevolezza collettiva, in un’attesa
forse struggente e di cui non è certo alcun esito. Si può nel frattempo
continuare ad accontentarsi di spigolare qualcosina in parlamento o nelle
amministrazioni locali, con il fiato sempre più corto e lo stomaco tormentato.
Si può oppure insistere a ricercare la sinistra perduta, con quel vigore
indignato delle tante intelligenze combattenti che inascoltate invocano se non
ora quando.
È che, malgrado tutto, in questo disastrato paese persiste una tensione
ideale densa e appassionata, anche cospicua e diffusa, ma pur sempre rarefatta,
destrutturata. Dalle valli piemontesi agli altopiani siciliani, tra mille
scintille e focolai, si dispiega una considerevole movimentazione sociale che
preme e sussulta, urta, strattona e spinge, e poi ripiega, si disperde,
sfiorisce. Per riaccendersi di nuovo e di nuovo sopirsi. Un poderoso impulso
sociale, uno slancio desiderante che tuttavia stentano a esprimersi e comporsi
in una soggettività che sappia incidere e cambiare l’esistente stato delle
cose.
È difficile prevedere se tutte queste molecole si assembleranno per
trasformarsi in un nuovo composto politico, si confedereranno in una qualche
inedita morfologia, si decideranno finalmente ad auto-rappresentarsi. Segnalano
tuttavia una speranza concreta. Forse l’unica disponibile, per riattivare una
dinamica democratica larga e convincente e (chissà) a fondare una sinistra
nuova, una sinistra purchessia, una sinistra che non sa di esserlo.
E un’occasione per verificare se sia o meno possibile alimentare tale
aspirazione è quella offerta dalla campagna in difesa della Costituzione, che
vedrà una prima tappa in un’assemblea l’8 settembre a Roma per poi proseguire
in una successiva manifestazione nazionale in ottobre. A nessuno sfugge la
centralità di una battaglia che è insieme politica, sociale e culturale, e che
può contrastare seriamente i processi degenerativi che si vanno pericolosamente
sviluppando. E a nessuno sfugge altresì che potrebbe diventare l’ambito in cui
in molti, moltissimi si possano riconoscere e possano partecipare, liberamente
e salvaguardando la propria autonomia, per rivendicare nuovi orizzonti
giuridici sulla democrazia, sui diritti, sul lavoro, sui beni comuni, ecc.
Ebbene, le realtà territoriali, i movimenti, le assciazoni, i sindacati,
l’attivismo sociale e culturale possono nutrire e animare questa campagna, e
possono farlo come solo loro sanno fare, capillarmente e appassionatamente:
com’è successo con i referendum sull’acqua pubblica e come succede costantemente
nelle vertenze e nelle mobilitzioni che si accendono in ogni dove.
Mi sento anche personalmente coinvolto in questa battaglia, a cui dunque
aderisco. E invito inoltre a parteciparvi anche le comunità politiche che hanno
promosso le liste di cittadinanza con cui ho condiviso la recente battaglia
elettorale, esperienze di nuova formazione che nel frattempo si stanno
aggregando in un coordinamento nazionale.
È del resto attraverso la condivisione, l’incontro, la relazione che è
possibile imbastire un nuovo tessuto politico. Creando cioè ambiti collettivi
in cui ognuno sia messo in condizione di contribuire e dunque di rendersi
protagonista. Cercando per un verso di contrastare politiche scellerate, e per
l’altro di coltivare un nuovo modello di prassi collettiva. Si tratta insomma
di agire in quelle contraddizioni generate dalle scelte di governi sempre più
compiacenti e asserviti, ma tutti insieme, tutte insieme, in una reciproca
disponibilità all’iniziativa comune. È qui lo snodo da allentare, il grumo da
aggirare, il dubbio da sciogliere, l’ostacolo da superare. Nel nostro paese
sono migliaia le turbolenze sociali che precipitano in scompensi, attriti,
conflitti, gli episodi di dissenso e ostilità che si accedono per difendersi
da politiche sempre più aggressive e deprivanti. Ma tutta qusta potenzialità
stenta ed è perfino riluttante a coagularsi per dar vita a una nuova grammatica
politica.
Eppure è quest’insieme di insorgenze popolari che in Italia costituisce
oggi l’opposizione, non solo sociale e culturale ma direttamente anche
politica. Annidato nelle città e nei territori, si configura come un fronte
mobile e segmentato, anzi puntiforme, e perciò stesso oscillante tra un
andamento a bassa intensità e picchi di furente conflittualità. Ma anche
ondivago nel suo rapporto con il potere politico: incline in alcune circostanze
a tutelare le proprie convenienze, del tutto indisponibile al confronto, in
altre. Parassitismo o refrattarietà. La pervasività cellulare è la sua forza,
ma ne rappresenta anche la debolezza. Disarticolazione, specificità,
intermittenza, frammentarietà: un costante rischio di dispersione, se non
proprio di inefficacia.
Ma è del resto così che si esprime attualmente la soggettività politica. E
non solo in Italia: dalla Turchia al Brasile, dagli indignados all’arcipelago
occupy. È l’esito della lunga e tormentata crisi del partito novecentesco,
dell’esaurirsi del suo ruolo di corpo intermedio tra la società e le
istituzioni, a lungo esercitato e oggi frantumato e non più credibile. Una
crisi che tuttavia non solo si prolunga generando contraccolpi burocratici e
degenerazioni etiche, ma non riesce nemmeno a depositarsi in un qualche
precipitato sostitutivo. È un’agonia, questa dei partiti, che, in mancanza di
forme organizzate, modelli alternativi, sfigura e decompone la funzione
politica, fino a spolparne ogni ragione e così renderla accessoria, superflua.
Come se il morto divorasse il vivo.
Ed è esattamente qui, in questo transito tra il non più e il non ancora, in
questa dinamica tra conflitto permanente e rappresentanza manchevole, tra lotta
sociale e bisogno politico, che si resta impantanati in una terra di nessuno
senza echi né riflessi. E se il non più stiamo imparando a escluderlo, il non
ancora dobbiamo faticosamente cercarlo.
Il Manifesto 31.08.2013
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